Perchè nelle nuove tecnologie potere non significa dovere

Viviamo in una società delle prestazioni in cui siamo ossessionati dalla misura: del tempo, del guadagno, del ranking e di tutto ciò che rientra nel concetti di misurabile. Concetto, quest’ultimo, prettamente scientifico nella sua definizione, su cui molte mistificazioni sono in atto: su tutte, quella che stabilisce che se un segnale suggerisce che io possa fare una cosa, allora debba farla. In questi termini si delinea un mondo di opportunità pronte ad essere colte, una foresta di alberi dai succosi frutti che non aspettano altro se non di essere colti.

Il mito travisato della volontà di potenza

Secondo un diffuso mito, infatti, volere è potere: la volitività del singolo basterebbe, stando a questa narrazione, per affermare la realtà nei termini di ciò che vogliamo, e cambiare le cose dall’interno. Secondo una seconda narrazione leggermente più realistica, forse, volere è anzitutto dovere, ovvero fare ciò che rientra nei nostri doveri e poi attendere, anche qui, il risultato del nostro lavoro. Sono entrambe concezioni molto tipiche della società delle prestazioni e sono, a ben vedere, tutt’altro che universali e non contraddicibili.

Se il primo mantra è molto in linea con l’epicità dei brani dei Manowar, una delle band metal più famose al mondo e precursori di qualsiasi coach moderno, il secondo fa appello ad una sorta di regno dei cieli in cui, se faremo in bravi, ci attenderà il godimento eterno del Valhalla (il che fa molto epic metal, anche lui). Il mito della volontà di potenza, per cui in una prima fase sei triste e solo, poi arriva il tuo coach che ti aiuta ad alzarti, coraggio figliuolo, la vita è meravigliosa, se puoi, lo farai, elegge la volontà di potenza al di sopra di qualsiasi altro valore. Si tratta di una semplificazione indebita della Wille zur Macht nietzschiana: secondo la poco popolare concezione in questione, la volontà dovrebbe in realtà diventare essere impersonale, non essere auto-riferita, adeguandosi ai tempi e valutando l’ottica del prospettivismo (comprensione della realtà da vari punti di vista). Solo in questi termini l’espressione dovrebbe avere un senso – per quanto poi, nello stesso Nietzsche, l’espressione rimanga in parte ambigua e indefinita, oltre che soggetta a speculazioni abbastanza arbitrarie (cosa che avviene anche nella letteratura scientifica, e che avviene forse a maggior ragione nell’ambito filosofico).

Software di analisi delle prestazioni e del ranking

Potere significa dovere, dicevamo. Oppure no: quando ci capita di osservare le statistiche relative ad un sito, o l’ammontare delle vendite del mese del nostro negozio online, o qualsiasi altra osservazione proveniente da dati forniti e aggregati da una macchina, ci capita di fare valutazione sulla base di quei dati e di chiederci: come posso fare meglio di così? In altri contesti posso riformulare la domande ponendo la questione in modo differente: se posso fare una certa attività, devo farla per forza? Potere implica, in ambito lavorativo e per estensione anche in quello della vita di ogni giorno, la necessità di investire risorse, tempo, soldi, capacità, skill. Qualsiasi cosa che rientri nelle nostre potenzialità, il che è giusto, ovviamente, perchè la società in cui viviamo non può ammettere l’inattività, bisogna pur fare o saper far qualcosa per vivere.

Il problema è a mio avviso nel ruolo del decisore, che tende spesso a nascondersi dietro astrusi meccanismi e che si de-responsabilizza nel proprio ruolo: come posso fare meglio di così andrebbe sostituito, in molti casi, con è proprio necessario pensare di fare meglio di così? Il punto è ridare al prospettivismo un ruolo rinnovato, più decisivo, più incisivo nella realtà, proprio perchè il problema di fondo della volitività esasperata è quello di illudersi che il mondo giri attorno a noi e alle nostre disperate, sacre, intoccabili esigenze.

Bias di automazione e software di supporto alle decisioni

Al tempo stesso, esiste il bias di automazione: una distorsione cognitiva per cui gli esseri umani, posti davanti ad uno schermo, tendono a dare per buoni, favorendoli e considerandoli autorevoli, i dati (ivi inclusi: suggerimenti, percentuali, tendenze e via dicendo) da parte di un software senza badare alle possibili contraddizioni contenute negli stessi. Le contraddizioni che emergono da un software sono numerose: basti pensare ai casi di Google Bombing, ricerche alterate dallo spam degli utenti a scopo dimostrativo, di trollaggio o politico. Un caso in cui un software non mostra ciò che dovrebbe, ma ciò che lo induce a pensare un’alterazione maliziosa dei dati da parte di terzi. E nonostante mostri un risultato sostanzialmente sbagliato, ci crediamo lo stesso: ne ridiamo, facciamo screenshot e le condividiamo, se ci riteniamo gli artifici della cosa (potenziale bias di attribuzione, ma lasciamo stare…) ce ne vantiamo con gli amici.

Percentuali positive che non sono positive

Il caso tipico che mette in crisi ed evidenzia il bias di automazione in ambito SEO (ottimizzazione dei motori di ricerca, disciplina entusiasmante quanto dubbia nella sua applicabilità, in molti casi) è, del resto, la misurazione di un picco di visite accidentale: pensiamo ad un incremento di visite derivante da una ricerca molto popolare su Google, che pero’ non c’entra nulla con la realtà del nostro sito (tipico caso: ricerche come “xxx porno” che portano traffico organico su un sito che parla di trattori). Il fatto che una percentuale sia positiva, che un software segnali qualcosa di positivo – e all’inverso, che dica il contrario – non dovrebbe condizionarci più di quanto non faccia un’interazione qualsiasi: certo, apprezziamo il potenziale tecnologico e ne teniamo conto. Ma se deleghiamo completamente la decisione a ciò che leggiamo su uno schermo rischiamo di abbandonare il prospettivismo e diventare monolitici, accettare le cose perchè c’è scritto su internet o perchè quel software l’ho pagato, santo cielo, e dovrà pur servire a qualcosa. La percentuale di aumento in positivo potrebbe indurre, in questi casi, il decisore a prendere il dato come buono – quando non lo è, o alla meglio andrebbe ignorato – accettando il responso del software e dimenticando, in qeusti casi, il concetto di supporto alle decisioni.

Abbiamo parlato di molte cose ma il punto chiave è che Potere non significa dovere: se io posso fare qualcosa perchè qualcuno mi suggerisce di cogliere l’opportunità, e mi dice di darmi da fare, che ho delle potenzialità, che non devo sottovalutarmi, che c’è qualcosa di positivo da cogliere, che queste arance sono succulente e devo mangiarle prima che qualcuno me le rubi, significa per certo che vivo in una società delle prestazioni, non certo che io debba accettare supinamento la spinta e lasciarmi condizionare. In ottica prospettivista, in effetti, potrei dover valutare la situazione da altri punti di vista. Potrei prendere decisioni anche scorrelate da ciò che mi suggerisce l’analisi data driven, a volte. Potrei anche decidere di astenermi da un giudizio, ad un certo punto, proprio perchè l’overload di informazioni potrebbe avermi fuorviato e potrebbe essere più saggio, in certi casi, fare così.

Software di supporto alle decisioni è un’espressione desueta, probabilmente ma rende l’idea di un qualcosa che facciamo ogni giorno: usare un software come pezza di appoggio e non come libro sacro. Siamo ad un bivio e dobbiamo scegliere: da un lato, accettare e prendere passivamente per buono ciò che suggerisce Google (o qualsiasi altro software, se interrogato), dall’altro considerarlo come un qualcosa da integrare con letture ulteriori, analisi separate, consulenze di esperti e rivalutazione del ruolo del decisore nel contesto in cui ci troviamo. Foto di Gerd Altmann da Pixabay