Coronavirus, e le sue conseguenze sul mercato online

Viviamo una situazione molto difficile, è inutile nascondersi. È davvero molto complesso, ad oggi, azzardare previsioni sull’evoluzione del Covid-19, che sta sicuramente condizionando le nostre vite a molti livelli. Del resto la maggiorparte delle persone è penalizzata dal non sapere nulla di queste cose, ed è costretta ad affidarsi a pareri di esperti (o presunti tali) che si intrecciano, si confondono e non fanno capire chi possa avere ragione e chi no.

A breve, come sappiamo, si riaprirà (4 maggio 2020, salvo ripensamenti prudenziali last minute): è questione di ore. Le persone passeranno molto tempo a chiedersi cosa si possa fare, dove si possa andare, quali mascherine usare e via dicendo. Ma quali potrebbero essere le reali conseguenze della pandemia sulle nostre vite quotidiane? Ho provato a chiedermelo in questo lungo articolo, che ho meditato diverse settimane dopo essermi un po’ documentato in merito.

L’inizio

Ricordo bene come ho vissuto l’emergenza fin dall’inizio: era il 17 febbraio, rientravo dalla docenza ad un corso di formazione e mi trovavo alla stazione della metro di Anagnina, postando la foto dei tornelli che sono visibili in uno dei film di Fantozzi.

Questa foto è diventata significativa perchè, di fatto, è stata l’ultima che ho postato ai tempi in cui si usciva tranquillamente e ci si ammassava sui treni, sui tram e sui bus. Una cosa che, a quanto pare, non succederà più per un bel po’.

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Mentre rientravo osservavo le persone attorno a me, e non potei fare a meno di notare un ragazzone che, in tutta fretta, saliva sul treno assieme a me indossando quella che mi era sembrata, a tutti gli effetti, una maschera antigas modello prima guerra Mondiale.

Lì per lì avevo pensato ad una goliardata, un po’ sulla falsariga di altre che mi era capitato di vedere (cose che si vedevano sempre, in giro per la città, soprattutto a vantaggio dei fortunelli senza auto propria: un fragoroso applauso all’arrivo di un bus in ritardo, io ero sul quel bus e la cosa mi ha fatto abbastanza ridere di riflesso). Ma in quel caso, probabilmente, era scattato in me quel sentimento di sottovalutazione del problema, che ha portato molti a scomodare in seguito termini come “post apocalittico” e paragoni con horror famosi tipo The flu o Contagion.

Passò qualche giorno e la mia vita sociale non fu particolarmente densa: a parte andare in ufficio e passare un pomeriggio da amici, non era successo nulla di che. Ho visto anche un concerto gratuito, in quei giorni, poi le cose iniziarono a farsi sentire in maniera più pesante.

Coronavirus, sentivo in TV. E mi ero praticamente convinto che fosse “poco più di un’influenza”, seguendo alcuni guru televisivi (e addirittura del mondo sanitario, a volte) che blateravano annegati nel proprio ego come i predicatori TV americani, o magari come certi marketer poco sobri che seguiamo un po’  tutti, nel settore.

Cosa contano la verità, la coerenza di quello che dici, l’affidabilità di ciò che inviti a fare se quello che importa, alla fine, è solo conquistare la visibilità sui quotidiani? In Italia, per certi versi, apprezzo come è stata gestita (e lo scrivo senza affiliazioni politiche che, da sempre, rigetto: ho perso il mio precedente lavoro per motivi squisitamente politici, se vogliamo, per cui per me, da allora, non ha senso farsi la tessera di partito con nessuno), ho anche apprezzato le “correzioni in corsa” che sono state apportate (più che altro perchè mi sono familiari, lavorativamente parlando), ho apprezzato molto meno la gara a chi la sparava più grossa.

Perchè non era affatto un’influenza un po’ più potente: era un vero e proprio problema che avrebbe portato conseguenze incredibili sulla nostra vita e sulla nostra economia.

Lavoravo, pochi giorni dopo. Poi ero al telefono, chiacchieravo non ricordo bene con chi, e non avevo sentito ancora nulla: ho saputo la cosa da una chat Whatsapp di amici storici.

Poche ore dopo, infatti, era scattato ufficialmente il lockdown nazionale che sarebbe durato, di lì in poi, quasi due mesi.

Lo smartworking

L’ho vissuta in maniera piuttosto pacifica essendo uno dei “fortunati” che poteva lavorare in smartworking. La mia azienda, peraltro, ci ha mandato a casa qualche giorno prima che l’Italia fosse dichiarata per intero zona rossa (se ricordate, all’inizio, la distinzione era regionale). All’improvviso iniziai a vedere mascherine, guanti e file distanziate.

Ho notato anche un meccanismo tipico, che ho visto scattare in molti casi: chi fa smartworking viene quasi automaticamente “odiato” dal resto dei lavoratori che non sanno o non possono praticarlo.

Ora, dico questo: capisco che ci siano lavori manuali per cui è necessario introdurre misure di sicurezza per farli procedere (e questo, forse, andava fatto anche prima della pandemia), e non parlo di voi (e vi rispetto, se servisse dirlo).

Mi riferisco a chi è ancora oggi avulso ed allergico alle “diavolerie tecnologiche”, che non sa usare uno smartphone e non accende un computer se non per girovagare suo malgrado su siti che, nella migliore delle ipotesi, gli hanno già installato un malware. Dico questo, a voi: aggiornatevi, è necessario ed utile per tutti farlo.

Se avete un negozio fisico, aprite un corrispondente negozio online, alla peggio vendete via Facebook con gli annunci integrati, insomma non rimanete fermi. Riorganizzate la filiera di produzione, se necessario. Fate consegne a domicilio: è il momento giusto per farlo.

I flash mob (ma anche no)

Per un certo periodo ho sentito i flash mob, la gente che metteva musica dopo le 18 sulla falsariga di quel maledetto “andrà tutto bene” su cui poi, ovviamente, molti autori satirici hanno ironizzato. A me i flash mob in genere non piacciono, tant’è che li ricordo con un certo raccapriccio fin dai tempi in cui facevo web radio all’università.

Figuratevi ora, in una situazione del genere, cosa ne penso.

Meno male che non sono durati troppo, anche se capisco l’effetto esorcizzante che possano avere avuto su molti italiani, che si sono sentiti soli e soprattutto – secondo me – non riuscivano a capire perchè si doveva restare a casa.

Le file distanziate al supermercato

A Roma (nel quartiere dove vivo, almeno), le file sono state quasi sempre distanziate di quasi 2 metri e passa, in media, la gente è stata piuttosto composta (anche se ovviamente so che non ovunque, nella Capitale, è stato così), la spesa non era un’impresa temeraria e per fortuna i servizi di consegna a domicilio hanno mediamente funzionato, a parte i primi giorni che è stato davvero impossibile usarli.

Dico solo questo: potenziate subito, ancora di più i servizi di consegna a domicilio. Vivremo meglio tutti, le vostre finanze incluse, se la smetterete di scoraggiarvi perchè poi su ogni vendita dovrete lasciare una commissione all’app che vi ha permesso di lavorare in quel modo.

Lo smart working è il futuro

Per quanto possa sembrare un appello markettaro e quasi inadeguato rispetto al contesto, il vituperato lavoro da casa (beato te che lavori da casa, ironizziamo spesso con un amico che lavora all’università) che ieri sembrava roba per fortunelli viziati, oggi è fondamentale. Non è un vezzo, non è pigrizia: significa superare la concezione anni 90 del capo che ti controlla mentre tu fai finta di lavorare, e giochi a Solitario non appena gira le spalle. Quel modello di ufficio lì è superato, è nato male, fatevene una ragione.

Lo smart working comporta scarsi rischi, le aziende che possono farlo risparmiano un sacco ed eviteranno cause da parte di dipendenti che si potrebbero prendere in virus mentre andavano al lavoro. E se si rapporta il lavoro al risultato, all’obiettivo, e si misura l’efficenza in modo più sostanziale (anche se non è facile), è fatta.

Gestire il panico

Ad un primo livello, l’emergenza sanitaria ha finito per generare un certo panico generale e tale sentimento, di fatto, si è riflesso anche a livello di mercati: è inevitabile, purtroppo, che le vendite ed il marketing che facciamo per lavoro ne subiscano in qualche modo l’influenza.

Se molti clienti non vorranno più investire sulle consuete attività, da un certo punto di vista, è anche comprensibile. Del resto sarebbe ora di smetterla di azzardare o improvvisare: la soluzione va trovata soprattutto a livello di protocolli sanitari che possano essere davvero adeguati.

Si è parlato di tantissimo, ad oggi, inclusa l’app di tracciamento che ha generato tantissime perplessità tra gli esperti (ne ho parlato qui) e sono convinto che sia soltanto un aspetto da considerare: se non c’è un protocollo sanitario da seguire, ogni app sarà inadeguata e produrrà solo confusione, per non parlare di falsa sicurezza.

Ci sarebbe altro da raccontare, la discussione non finirebbe mai ma preferisco chiuderla qui. Sono uno dei tanti che ha potuto continuare a lavorare da casa vivendo, al limite, giusto un po’ di preoccupazione e nient’altro. Sono stato fortunato: ma proprio per questo ho moltissima voglia di riprendere a vivere come prima, come sempre, meglio ancora di prima.

Sono sicuro che un modo per farlo, prima o poi, lo troveremo.